giovedì 29 luglio 2010
Rosemary's baby
Rosemary Woodhouse (M. Farrow) sospetta una congiura demoniaca contro la creatura che porta in grembo, organizzata, con la complicità del marito attore (J. Cassavetes), dagli arzilli Castevet (R. Gordon, S. Blackmer), coinquilini-stregoni mimetizzati negli abiti della borghesia di New York. Realtà o psicosi? Il polacco R. Polanski – al suo 1° film made in USA dopo 3 britannici – affascinato dal senso di mistero che serpeggia nel romanzo di Ira Levin, ne cava un memorabile esempio di cinema della minaccia e ripropone il tema dell'ambiguità fino a farne la struttura portante della narrazione. È “un incubo cinematografico dove la possibilità di orientarsi tra fantastico e reale è persa sempre, mentre resta a dominare la scena la sensazione di angoscia ridotta al grado zero e perciò ancor più inquietante” (Stefano Rulli). Oscar per R. Gordon.
In un film come Rosemary’s Baby, dove gli attori sono tutti perfetti nei loro ruoli, i più piccoli gesti, ogni minimo sguardo, hanno la loro precisa ragion d’essere e contribuiscono a creare un'atmosfera di composta perfezione, dove tutto appare giusto e calibrato al millimetro, nulla è ridondante, e quasi niente viene concesso alla classica iconografia da film horror, nemmeno quei bruschi movimenti di macchina, quelle improvvise apparizioni, quegli spaventosi cambiamenti di ritmo che ci fanno sobbalzare dalla poltrona, in un film come questo l’inquietudine è piuttosto un’atmosfera quasi impalpabile ma onnipresente. Si pensi alla discrezione della musica, che è sempre nello sfondo, appena accennata. E' una musica extradiegetica o viene da dietro il muro che separa la normalità, la vita dell'onesta e razionale famiglia americana dall'appartamento che il diavolo ha scelto come sua dimora?Quest’incertezza, quest'indecisione sull'origine della musica non fanno che riflettere il carattere di generale ambiguità e di indecisione che a mio avviso è la caratteristica principale del film.
Polanski produce un capolavoro nel riuscire a descrivere, per così dire, la storia del raggiungimento di una consapevolezza, da parte del personaggio di Rosemary, certo, ma anche e soprattutto da parte del pubblico: la consapevolezza di un complotto che si sta realizzando. Questa consapevolezza passa attraverso gradi differenti, che possono essere analizzati dal punto di vista di Rosemary e da quello del pubblico.
Questi due punti di vista, quello del pubblico e quello di Rosemary, sono caratterizzati da un'evidente asimmetria. Il pubblico ne sa apparentemente di più e impiega meno tempo di Rosemary a capire le intenzioni dei vicini e del marito. Eppure nel momento di massima consapevolezza, proprio nel momento in cui il suo punto di vista e quello di Rosemary coincidono, anche il pubblico viene colto dal sospetto che la sua costruzione sia frutto del tranello che il regista gli ha teso fin dall'inizio. La prima volta in cui si ha il sospetto che Rosemary sia pazza è quando lei capisce quel che noi sapevamo già da circa metà film. Ma proprio quando siamo quasi rassicurati sul fatto che le più terribili congetture fossero frutto della fantasia di Rosemary (e della nostra), ecco che il regista ci tende un altro tranello: nella scena finale del film vediamo senza ombra di dubbio che l'Anticristo è davvero nato, e che come tutti i bambini in fasce dentro la sua culla piange e si dispera fino a quando la sua vera mamma, che porta dentro il suo nome le tracce della Maria cristiana, non accetta di accudirlo secondo natura, in questa natività capovolta, in un interno iperrealista, dove la presenza del mostro-bambino pare casuale, normale come quella di un mobile o come le foto che il giapponese gli scatta. Un Anticristo immortalato in una foto ricordo, anche lui suo malgrado invischiato nella nostra società consumistica.
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